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Perdere con la Macedonia del Nord è la triste normalità

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Il calcio in Italia non è più centrale. Purtroppo o per fortuna. Lo vediamo nella vita di tutti i giorni, chi ha figli o nipoti può constatare che i ragazzini scelgono altro, il rugby, lo skate, l’atletica, il volley, o più tristemente passano la giornata con uno smartphone in mano o parcheggiati davanti la tv o un videogame. Il calcio non è più centrale perché nelle scuole calcio i genitori che accompagnano i figli o vanno ad assistere alle partite hanno il sangue agli occhi della competizione, il culto della vittoria e per il giovanissimo questo è un boomerang che lo allontana soltanto dalla vera passione, che dovrebbe stare alla base dell’avvicinarsi a uno sport (la voglia di prevalere deve arrivare dopo). Il calcio non è più centrale perché, un classe ’80 come me, è cresciuto con Maradona, Van Basten, Mattheus, fenomeni che in Italia arrivavano giovani e non come Cristiano Ronaldo a 34 anni. E Baggio, Schillaci, Vialli, Mancini ti facevano innamorare di questo sport.

Il calcio passa per le emozioni, per arrivare a tutti non bastano i nove mesi di campionato, ma serve un qualcosa di fortissimo, di popolare, che unisca. Può farlo solo un Mondiale. Un classe ’80, sempre per tornare a me, ha vissuto Italia ’90, certo un trauma, ma fino alla fine in qualche modo ci è arrivato. Ha visto quattro anni dopo un secondo posto (forse immeritato, perché senza Baggio l’aereo l’avremmo ripreso due settimane prima), si è arreso a Francia ’98 a quella maledetta traversa di Di Biagio nei quarti con i transalpini, si è arrabbiato con Moreno nel mondiale nippo-coreano (ma sapeva che c’era del marcio), ha gioito in Germania nel 2006 (con una Nazionale non simpatica, ma fortunata, efficace e formata da un gruppo valoroso e assetato di vittoria).

Il mio pensiero va oggi a un ragazzo di 20, 22 anni. Non ha memoria di nessuna gioia mundial. Era troppo piccolo per festeggiare il quarto titolo, ha visto gli azzurri da bambino miseramente uscire ai gironi nel 2010 nell’inutile Lippi bis, ancora peggio quando Prandelli ha voluto emularlo quattro anni dopo. Nel 2018 dell’Italia in Russia non c’era traccia e non ci sarà la spedizione azzurra nemmeno nell’inquietante Qatar (a proposito ma un Mondiale a dicembre in una nazione che non sa nemmeno come sia fatto un pallone, che senso ha?). Per fortuna l’Europeo dell’anno scorso ha dato modo alle masse occasionali che in queste occasioni seguono il calcio, di capire in parte cosa può portare il sentimento popolare, specie dopo due anni di una insolita pandemia. I ragazzi di Mancini 10 mesi fa sono stati bravi, bravissimi, forse in pochi ci speravano. Ma quel titolo continentale in fondo mancava da tanto, troppo tempo. Non puoi chiamarti Italia, aver vinto quattro mondiali e poi avere in bacheca solo un Europeo, vinto 53 anni prima. Te ne sei fatto scippare uno nel 2000 dai francesi, un altro lo hai perso con la Spagna obiettivamente più forte di te, ma in qualche modo doveva pure arrivare il secondo. Bravo Mancini, bellissimo lo spirito del gruppo, bravi i giocatori, ma il Mondiale è un’altra cosa.

Il palmares di Mancini sarà sempre più nutrito di quello di tanti suoi predecessori, ma questa onta non potrà essere dimenticata, anche se noto che si fa fatica a metterlo sul banco degli imputati. Si è chiesto anni fa di portare a Piazzale Loreto Giampiero Ventura, perché arrivare dietro la super Spagna nel girone e perdere uno spareggio con autogol e un palo-palo era vista come una vergogna “Nazionale”. Ora si giustifica Mancini dopo non aver vinto un girone con squadrette di seconda fascia e perso lo spareggio con la Macedonia del Nord, ripeto Macedonia del Nord, un piccolo Paese orgoglioso equivalente però nella sua forza calcistica a una buona squadra di serie B italiana. E senza poter schierare il suo giocatore migliore, quell’Elmas non sempre brillante con la maglia del Napoli. E potendo invece l’Italia contare sul supporto del meraviglioso pubblico palermitano e siciliano.

Detto questo, non vorrei contraddirmi, ma siamo sicuri che la Macedonia valga una serie B italiana, non sarà mica il contrario? Non sarà che la nostra cadetteria equivalga alla D di un tempo e che la serie A sia diventato un campionato poco allenante, misero e di seconda fascia? Qualche dato, fino a trenta anni fa le squadre erano sedici, poi diciotto. Ogni rosa era composta da 18 giocatori, poi magari si arrivava a 20. Oggi sono le squadre della A ad essere 20, in organico ogni allenatore ha 30 giocatori. Basta fare due calcoli e capire che tanti tanti elementi che circolano nel nostro campionato, negli anni 80 e 90 non avrebbero mai conosciuto San Siro, l’Olimpico, il San Paolo Maradona. Ora alcuni di loro vestono la maglia della Nazionale, firmano contratti milionari all’estero, rappresentano sportivamente il Paese. Siamo così convinti che Donnarumma avrebbe trovato posto in una serie A del 1987 o forse nella schedina del Totocalcio la sua squadra ci sarebbe andata una volta ogni due mesi? Siamo sempre così convinti che un Verratti sarebbe stato il faro del centrocampo di una grande del calcio? Ho i miei dubbi. Sugli attaccanti forse la storia è diversa. Sono in tanti quelli che con l’azzurro non hanno sfondato o si sono salvati in calcio d’angolo. Lo stesso Mancini a Italia ’90 di minuti in campo ne fece zero. Del Piero per anni è stato il terrore degli italiani, tra mondiali ed europei, poi quella rete in Germania al minuto 120 gli permise di espiare tutte le colpe. E Immobile è uno di questi, in fondo ha fatto parte della spedizione europea vincente ma è anche quello che in due spareggi mondiali non ne ha azzeccata una. Parlo di spareggi mondiali, parole mai utilizzate dalla mia generazione fino a 5 anni fa, perché noi lì in fondo c’eravamo sempre arrivati. Saltando un solo Europeo nel 92 per quel maledetto palo di Rizzitelli.

Venendo ai club, in 22 anni di storia di Europa League, solo un’italiana e nel 2020 è riuscita ad arrivare in finale, l’Inter, poi uscita sconfitta dal solito Siviglia. 22 anni con una sola finale e persa. Nei due decenni precedenti, le italiane non solo arrivavano quasi sempre in finale, ma trionfavano anche e spesso erano sfide fratricide. Con la Champions siamo più o meno lì, il Milan che alza la coppa con le orecchie nel 2007, poi l’Inter nel 2011 e poi? Due finali con la Juve e stop. A festeggiare sono sempre gli altri. Come possiamo pensare di essere davvero così competitivi? Anche in questo caso un ragazzino di 20 anni che tifa Milan non ha memoria di trofei importanti alzati al cielo. E stiamo parlando del Milan.

La Nazionale in Italia è vista come un ostacolo dagli organi federali e in fondo anche buona parte di pallonari nel weekend in cui la serie A lascia spazio all’azzurro sbuffa perché non ha il fantacalcio, la partita dal divano e non sa cosa fare. Dai vivai non si attinge più da tempo, tranne quelle poche società che invece con i giovani ci sanno fare (Atalanta, Sassuolo). In Italia consideriamo speranze del calcio gente nata nel ’97 o nel ’98, all’estero giocano senza problema i 2003, 2004 ed è normalità. Da noi i diciottenni giocano in D perché da 20 anni c’è un regolamento, ma spesso questi ragazzi vengono visti come un peso e utilizzati solo perché è obbligatorio.  Negli ultimi 15 anni i ragazzini sono cresciuti con il mito dei super fenomeni (Ronaldo, Messi) e si sono allontanati dalla curva di provincia, quella delle emozioni, quella della squadra che rappresenta una città di 40.000 abitanti che magari ti arriva in B o in A. Queste fino a qualche decennio fa erano emozioni uniche, oggi sapere che un borgo giochi in C interessa a pochi, perché fa più gola vedere un big match della Premier League. C’è la cultura del bello, del veloce, del tutto perfetto, ma vengono meno quelle sfumature necessarie per rendere il racconto avvincente e quasi fiabesco.

Quell’Europeo vinto 10 mesi fa quasi stona, perché se ti chiami Danimarca, Grecia ci sta, puoi vincere una volta nella vita e campi di rendita. Noi invece siamo condannati a dover essere sempre competitivi, a stare lì senza poter fallire. E invece forse il fallimento totale era necessario, ripartire da zero in toto, con la riforma dei campionati, con regole diverse, le società ostaggio dei procuratori anche basta. Club indebitati fino al collo che poi magicamente fanno mercato stellare. Stadi ancora vecchi, progetti presentati in pompa magna ma che poi forse vedono la luce dopo 15 anni. Cosa ha fatto il sistema calcio per avvicinare i giovani alla vera passione? Poco o nulla. Cosa fanno i media mainstream per far innamorare i ragazzini? Nulla, parlano solo di soldi e scommesse.

E allora rischiamo che perdere con la Macedonia del Nord diventi una triste normalità e ce la meritiamo tutta…

Antonio Tortolano

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