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Con Simone Inzaghi arriverà la rivoluzione tattica e di mentalità?

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Allenare nella capitale non è mai facile. Lo sanno bene i tanti allenatori che nel corso del tempo si sono succeduti sulle panchine di Roma e Lazio: da Capello a Eriksson per finire a Garcia e Pioli passando per Vladimir Petkovic, l’eroe di Coppa.
Per tanti Roma è stata una tappa cruciale, un bivio importante per la propria carriera, sia nel bene che nel male.
Ieri, sulla carta, si è conclusa quella di Stefano Pioli. Inevitabile, quasi annunciata.
Il derby è stato fatale al tecnico emiliano che saluta la compagnia dopo poco meno di due anni dal suo approdo in biancoceleste.
Era stato chiamato per ridare vigore ad una Lazio spenta, delusa dalla gestione di Reja subentrato a quel Vladimir Petkovic vincente, che ha fatto vibrare i cuori della gente laziale sbattendo in faccia una Coppa Italia ad una Roma che stava prendendo forma sotto la gestione americana.
Petkovic apre, Pioli chiude. Da derby a derby. Da Coppa a Coppa.

Inevitabile non parlare di Coppa.
Il cammino dello scorso anno di Stefano Pioli fu quasi perfetto: andata tra alti e bassi ma ritorno di eccezionale fattura con la pecca della sconfitta in finale di Coppa Italia contro quel Massimiliano Allegri che ha sempre stimato il tecnico parmense. Con la Juventus, comunque, su tre gare altrettante sconfitte. Una maledizione.
Nell’estate troppi paroloni, svarioni, sfondoni e soprattutto bidoni.
La fascia di capitano di Mauri, alle prese con guai extracalcistici e il successivo litigio tra Biglia e Candreva rappresenta un buon motivo dell’inizio del declino. La Supercoppa di Shangai è una mannaia che arriva sulla testa di Pioli che perde la quarta sfida decisiva con la Juventus nel giro di poco tempo. Quella squadra che era difficilmente migliorabile capitola sotto i colpi di Mandzukic e Dybala.
Da questa gara il pensiero lungimirante di Lotito e dell’intera società. Un obiettivo come la finale, con introiti importanti e con una Juve ancora da rodare rendono ancora più amaro un primo obiettivo sfumato alla portata di mano, con una Lazio per certi versi sempre con gli stessi giocatori ma fisicamente e mentalmente in ritardo.

Sfumata la Supercoppa rimane sempre il preliminare di Champions. Dall’urna esce il B. Leverkusen, un avversario sulla carta ostico ma non di certo insormontabile. Si esce nella doppia sfida, a salvarsi solo Keita che fa uscire la volontà di abbandonare il club visti gli esiti. La Lazio passa dalla straordinaria cavalcata della passata stagione al fallimento totale prima ancora di iniziare il campionato.

Peggio di così era impossibile fare, neanche nelle peggiori statistiche. Il mercato è fermo, non c’è la volontà di investire. Arriva Matri a parametro zero, uno di quei colpi alla Lotito frutto più di un placare dei voleri della piazza che del reale bisogno della squadra. Pioli non si impone, accetta la condizione di precarietà di una stagione tutta in salita. Errore che influirà come un macigno. Inizia il campionato. Tra alti e bassi sino a Novembre prima del tracollo. De Vriji “decide” di operarsi al ginocchio e in difesa la sua assenza si fa sentire. Media goal altissima, primi mugugni e lo scudo europeo che fa volare la squadra in testa al girone di pertinenza, a proteggere le scelte folli al contrario dell’intera dirigenza, su tutti gli orrori di Igli Tare al quale viene rinnovato il contratto sino al 2018. Troppi paradossi a confronto in una stagione iniziata male. E’ sempre allarme infortuni. A rotazione, in Paideia, ci vanno tutti.

Per la cronaca il derby di andata si perde all’inglese: 2-0.
Arriva Bisevac, l’acquisto “intelligente” in difesa e nel frattempo si va avanti in Europa League dove la squadra di Pioli non ha mai perso. L’unica soddisfazione la vittoria di Milano contro l’Inter e la Coppa Italia con il proseguo del turno ai danni dell’Udinese.
In Europa la Lazio punta tanto, tutto. In attacco si fatica, Klose è ai box e Djordjevic con Matri non incidono, nonostante l’attaccante ex Milan abbia fatto vedere cose più interessanti e segnato di più. Soddisfano sempre di più le prestazioni di Milinkovic e Keita
Esce il Galatasaray dalla urna di Nyon. Una squadra in default. La Lazio impatta all’andata ma vince al ritorno. In campionato gli obiettivi sono ridotti al minimo. Il sesto posto viene definitivamente perso con la sfida di Torino. Si perde contro il Sassuolo, altra diretta concorrente all’Europa. Penultimo atto di una scena tragicomica, la doppia sfida contro lo Sparta Praga, altra squadra a non aver mai perso nella competizione europea. Pareggio in terra ceca e sconfitta eclatante a fare male in casa. Goal sempre presi nei primi quindici minuti, morale depresso, Europa lontana Da qui, la Lazio e Pioli, si dicono addio. Il derby, il 4-1 finale, sono solo storie. Troppi meccanismi inversi per far funzionare un orologio che già si era fermato.

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Pensando in maniera aziendalista, il ruolo di Pioli è stato né più né meno il risultato di un dipendente qualsiasi cacciato dal proprio datore di lavoro, al quale, però, è stato bene tutto. Il nome di un perbenismo nei modi ha lasciato spazio alla realtà dei fatti: gestire una squadra come la Lazio, con un ambiente circostante forte non è come gestire una squadra di provincia. Il primo anno può essere importante ma lo è ancora di più il secondo. Nessuna prospettiva ad agosto e destino abbastanza segnato per Pioli che paga anche per colpe non sue. L’unico dato alla mano favorevole, riguardano le sconfitte (3) in 16 partite. Con questa squadra, con questi giocatori è impossibile andare lontani. La rivoluzione tattica è alle porte.

Mandare via Pioli ora ha solo il significato di fare da apripista per Simone Inzaghi che guiderà la squadra nelle prossime sette gare. Un uomo vicino alla società che, paradossalmente, potrebbe essere il primo vero acquisto per la prossima stagione date le sue caratteristiche di lavorare con i giovani e consapevole del fatto di conoscere alla perfezione l’ambiente Lazio. Con la Primavera ha fatto dei miracoli e con alcuni ragazzi della primavera cercherà di fare il doppio salto di bilancio e di plagio verso una piazza che inizia a dare cenni di estremo nervosismo. Monetizzare con le cessioni di alcuni big per poi avere la pazienza e la lungimiranza di investire in una linea verde che sarà la base di un prossimo futuro. Nel frattempo, però, a tutti è mancata quella lungimiranza di gratificare il lavoro di un anno in un anno favorevole. Intanto la squadra è partita per il ritiro a Norcia. Tante domande da porci e troppe risposte abbastanza scontate in una settimana nel quale si sono alternati i ricordi di Giorgio Chinaglia e Bob Lovati sino alle iniziative di alcuni esponenti laziali nel mediare tra la presidenza ed il tifoso nella salvaguardia dei 116 anni di storia. Un minestrone di idee che impatta con un volere sempre più popolare di un allontanamento generale del tifoso da questa dirigenza.

Vedendo i risultati, analizzando i comportamenti, i pseudo-salti avuti in passato per crescere, non si può fare altro che prendere in considerazione la voce del popolo. Perfino Berlusconi, nelle ultime sue uscite, ha chiaramente fatto notare che le squadre di calcio appartengono ai tifosi e non dei presidenti. Ulteriore stoccata verso un presidente che sta trovando terreno bruciato ovunque, anche tra i volti una volta amici.

Mirko Cervelli

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